Ha infiammato il dibattito pubblico la stretta contenuta nella bozza della manovra sul fringe benefit per l’uso privato delle auto aziendali. Una polemica che ha subito spinto il Governo a una parziale retromarcia, riducendo l’impatto della misura e salvando del tutto dalla stangata le auto elettriche e ibride. Resta poco chiaro il trattamento che sarà riservato alle mild-hybrid.
Cosa prevede l'intervento del Governo
Oggi l’auto aziendale rientra tra le voci della retribuzione dei dipendenti a cui è concessa per uso promiscuo, ma solo il 30% del suo valore è sottoposto a imposizione. In sostanza quindi il fringe benefit che finisce in busta paga è il 30% del costo chilometrico annuo, ricavato dalla tabelle Aci per una percorrenza di 15mila km l’anno. O per dirlo in un’altra maniera, è come se lo Stato presumesse che il 30% dei chilometri percorsi siano nel tempo libero, e per questo sottoposti a tassazione.
In un primo momento il Governo ha ipotizzato di portare il valore tassabile dell’uso privato del mezzo dal 30% al 100% del costo chilometrico, salvo poi far filtrare la volontà di ridurre il peso della stangata, declinandola in funzione ambientale. Vediamo come.
Per ora salve solo elettriche e ibride
Nella sua ultima configurazione, stando a quanto circola in queste ore, la misura sarebbe stata rivista con una rimodulazione che distingue le auto aziendali in base all’alimentazione e alle emissioni.
Dal 2020, quindi, il fringe benefit resterebbe inalterato al 30% per chi utilizza una vettura aziendale ibrida o elettrica (e chiunque rientra nella categoria degli addetti alle vendite), mentre negli altri casi la quota di utilizzo privato da tassare passerebbe dal 30 al 60%. Ma non solo, perché in caso di emissioni di CO2 allo scarico superiori ai 160 g/km (la stessa soglia che per l’acquisto fa entrare i veicoli nuovi in zona ecomalus) la quota arriva al 100%, come previsto inizialmente per tutti.
Ma l’atmosfera resta caldissima
Il parziale passo indietro dell’esecutivo non sembra però sufficiente a smorzare le polemiche, che hanno visto scendere in campo ieri, prima della retromarcia, Anfia, Assilea, Federauto e Unrae. “Il collasso del mercato delle auto aziendali”, hanno tuonato le quattro associazioni, avrebbe “conseguenze deleterie sulla capacità di rinnovare il parco circolante e sulle produzioni nazionali”.
E inevitabilmente la questione agita il Governo, in particolare sul fronte M5S. Contro la stretta sulle auto aziendali, attribuita alla viceministra pentastellata Laura Castelli, si è schierato infatti con nettezza il compagno di partito e omologo allo Sviluppo Economico, Stefano Buffagni.
La norma “è stata modificata parzialmente grazie al nostro intervento ma a me non piace”, ha tagliato corto Buffagni in un video su Facebook, “non sono convinto, per me non è abbastanza. Con questa impostazione non si sta aiutando a cambiare il parco macchine ma si fa pagare solo chi già paga. Di lavoro ce ne sarà da fare tanto in Parlamento”.